Legno, scuro, riflette in tonalità mute per la vernice chiara ora calpestata tanto da diventare opaca, confortante, assorbente. Il palco assorbe. Una discesa talmente dolce da non esistere quasi, soltanto che quando ti cade il cacciavite mentre monti la roba, rotola giù. Lo spazio bombato di una pancia che ti contiene e ti nutre.
Il nero, tendaggi silenti e discreti che dalle quinte, dietro al regale e rosso sipario che urla la sua presenza ora inapellabile e ora negoziabile, coprono a richiesta, svelano per necessità, si fanno comandare con rigoroso, dignitoso silenzio, e racchiudono, e lasciano suggerire infinità oltre al palco, accennano a spazi come vuoi tu, intimi o cosmici che siano.
Quinte scure, ombre grige di chi aspetta, di chi assiste, quinte che forse esistono e forse no, dipende se te le ricordi, come l'Australia, come il '500, ogni tanto ti vengono in mente, ma spesso sfuggono e lasciano soltanto il palco.
L'abbaglio celestiale delle luci, l'enormità di ciò che fai, l'infinita piccolezza di te, te sotto il microscopio, guizzante su una vetrina, scrutata da tutti che sparisci, microbo, dentro l'acquario del tuo personaggio, spazio enorme dove nuotare e lasciarti galeggiare con gli arti tesi a più non posso, uno spazio che ti riempie e che tu devi riempire sotto il calore e l'abbaglio di una luce più potente di quello del giorno. Grembo, spazio uterino. Sono enorme. Sono nulla.
Il muro nero che fa mille rumori, il muro che respira, bisbiglia, ride, si lascia sfuggire un "oh" di sorpresa, di compassione, il muro che si muove, si sposta, spegne un cellulare, chiede alla mamma di andare al bagno a metà scena, cerca di mangiare le patatine, un muro che si nasconde dietro alla luce e al nero e parla alle tue orecchie mentre tu accecata lo respiri, senti i suoi odori e profumi.
Svestita, nuda, inerme, disarmata, vestita soltanto dal personaggio e dall'istinto, a gestire la bestia, docile o ostile non puoi sapere e lo devi scoprire con le orecchie e il naso, la pancia che agisce da cervello e ti comanda e ti dirige nel qui e ora mentre il cervello, distratto, fruga nel copione per anticipare il prossimo passo.
Tutto vibra.
Una distillata pura e essenziale di ogni possibilità di ogni cellula del proprio corpo.
Palco.
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Dark wood, quiet reflection, clear varnish so walked upon it's now opaque, comforting, welcoming. It absorbs. A slope so quiet and gentle that it hardly exists, but when putting up the backdrop you drop your screwdriver, it rolls slowly down towards the front. The curved stomach of a space that contains and nourishes you.
Black, silent curtains that glide out from the wings, behind the proud and regal front curtain, now deaf to appeals and now open to negotiation, and hide what they are asked to, reveal what they have to, allow themselves to be comanded in rigorous, dignified silence, that contain, that offer you infinity beyond the stage, that suggest spaces, intimate or cosmic as you desire.
Dark wings, grey shadows of those waiting, of those assisting, wings that are there, or perhaps not; it depends if you remember. Like Australia or the sixteenth century, you remember every so often that they exist, but more often they don't and leave you only the stage.
The blinding, celestial light. The enormity of what you are doing. The infinite smallness of you. You under the microscope wiggling on a slide, examined by all. You disappearing, a microbe, inside the vast aquarium of your character, an enormous space you swim in, floating and extending limbs to their tips, a space that fills you and that you fill under the dazzling heat of a light more powerful than day. Womb, uterine space. I am enormous. I am nothing.
The black wall of a thousand noises, the wall that breathes, whispers, laughs, lets out an "oh" of surprise or compassion, the wall that moves, switches off a mobile phone, asks mummy if it can go to the bathroom halfway through a scene, tries to munch on crisps, the wall that hides behind the light and the black and speaks to your ears while you, blinded, breathe it it, smell it.
Naked, unarmed, wearing only a character and a veil of instinct, you tame the beast, docile or hostile you have no idea at first, you taste it with your ears, your nose. Your stomach becomes your brain in the here and now, while your brain, distracted, sends out advance search parties in the script to anticipate your next move.
Everything is vibration.
Everything is a distilled, concentrated essence of every possibility of every cell in your body.
Stage.