Tuesday, November 27, 2007

Sogni, Rose e Giardini

Stanotte l’ho sognato dopo tanto tempo. Sognavo che le mie sorelle portavamo i fiori al mausoleo dove stava la sua bara, sempre pulita e lucida come il primo giorno.

Strano, non giace in un mausoleo, non giace da nessuna parte. Il mausoleo sarebbe stato l’antitesi dell’uomo, un orrore, una violazione dell’anima.

Ho sognato che abbiamo notato che la bara era un po’ aperta. Mi sembrava strano che l’aria profumasse di petali di rosa.

Le mie sorelle volevano vederlo ancora ma io avevo paura e mi sono coperta gli occhi con le mani come i bambini davanti ai film che fanno paura.

- Ma come sta bene! Mia sorella esclama.

Apro una crepa tra qualche dito e guardo le scarpe, che sono esattamente come me le ricordo. Guardo la stoffa dell’abito preferito, quello che ho portato io dalle pompe funebre, ed è esattamente come me la ricordo. Ho paura, ma guardo le mani, e sono ancora fresche e rosee, e l’indice destro è ancora un po’ storto, com’è rimasto dopo essere stato impigliato in una briglia. E allora mi faccio coraggio e guardo.

Sta dormendo e sorride nel sonno. Ha le gote rosse di quando era appena sceso dalla collina. E’ perfetto.

Chiudo gli occhi un momento.

-Guarda! Che bel giardino! L’altra mia sorella.

Guardo, e i bordi della bara sono diventati una balaustra, e guardando giù non si vede il fondo di raso bianco plissettato ma si vede lontano, si vede un enorme giardino pieno di colori, e si vede lui che passeggia su e giù tra i viali colmi di vita, colore, splendore.

Wednesday, November 21, 2007

Giallo

Non c’era scompiglio particolare tra i colori il giorno che rubarono la “i” al giallo. Il giallo era un colore talmente gaio e solare e brillante che tutti pensarono fosse soltanto una tipica dimenticanza di un colore così brillante, che male si adattava ai dettagli. Dopotutto, non era mai stato sbiadito, e così, senza la “i”, era soltanto sbadato, niente di più facile.

Ma dopo due giorni, i colori non reggevano più la situazione. Il giallo senza la sua “i” era diventato un gallo, e cantava e si vantava tutto il giorno. Dall’alba, quando il canto era particolarmente acuto e doloroso alle orecchie sonnolente degli altri colori, che pian piano si accendevano, fino alla sera quando, esausto, i suoi toni erano diventati rauchi e insopportabili.

Ma fu soltanto il terzo giorno che i colori si resero conto che non c’entrava nulla il giallo, ora gallo, ma che c’era stato senz’altro un furto. Perché il povero viola era stato pure lui derubato dalla sua “i”, e senza non riusciva a rimanere per terra da bravo colore posato e dignitoso, ma tutti, guardandolo, esclamavano stupiti “vola”! Ed era chiaro che il chiaro, anche lui monco della sua “i”, non poté più esserlo, e questo lasciava tutto il lavoro al povero scuro, e il mondo dei colori si incupì e si rattristò.

I colori primari ora erano soltanto due, e senza il giallo, ora gallo, non riuscirono a compiere più i loro splendidi giochi cromatici. L’arancione si spegneva, perché il povero rosso senza il compagno giallo non poté crearlo. Il verde pian piano scompariva, lasciando il blu solo con il rosso a creare soltanto il viola (che ora vola, e sparisce all’orizzonte).

Era una situazione disastrosa. Era l’apocalisse tonale. L’Armageddon cromatico.

Finché un giorno, misteriosamente, il gallo si svegliò, aprì il becco per cantare, e non uscì che un brillante e caloroso raggio di sole. Il bagliore e il caldo svegliarono gli altri colori, ormai tutti quasi spenti del tutto, e videro con meraviglia che la “i” era tornata al suo posto.

“I!” esclamò il rosso. “Ma dove sei stata? Stai bene? Ti hanno fatto male?”

“Sto bene, caro rosso,” rispose la “i”, “e nessuno mi ha fatto male. Ero un po’ stufa di stare qui, sempre al secondo posto dopo la “g”, e volevo mettermi nel “va” per poi andare “via”. Ho visto tante cose ma poi mi siete mancati e sono tornata.”

“Cara “g”,” disse il rosso rivolgendosi verso la lettera comodamente seduta sulla sua bella coda imbottita (l’invidia della “p” e la “y”), “ma cos’hai fatto alla “i” per farla scappare da questo colore?”

“Ah non lo so,” rispose la “g”. “È un giallo.”

Monday, November 12, 2007

Poppies


L’11 novembre in Gran Bretagna ha tre nomi: Armistice Day, Remembrance Day, Poppy Day. Tre nomi che portano dolorosi brandelli di storia.

Armistice: l’armistizio. Firmato l’11 novembre del 1918 dopo la “guerra da finire tutte le guerre”. Un macello, migliaia e migliaia di giovani, figli, mariti, papà, fratelli, amici, mandati “over the top” dalle trincee a morire in pezzi, o “hanging on the old barbed wire” – impigliati sul filo spinato (avete mai visto quelle spine? Sono grosse come ananas, taglienti come lame). Se non morivano prima con i polmoni distrutti dal gas. La vita media di un sottotenente over the top era 15 minuti. Nella battaglia della Somme nel 1916, più di 19,000 morti soltanto il primo giorno.

Remembrance: non ti scordar di noi: eroi patriottici morti nel nome di un valore o agnelli mandati al macello da un sistema socio-politico moribondo che ha ammazzato milioni di persone insieme a se stesso, cosa importa. Ricordatevi che anche noi avevamo il diritto di vivere, come voi, e ci è stato tolto.

Poppy: papavero. Non quello dell’opio, non quello che porta il male della dipendenza e la criminalità associata. Ma quello dei campi di Francia. Simbolo di ironia sublime – nella sua fragile, rossa bellezza, cercando di sopravvivere accanto ai fragili, rossi cadaveri di un’intera, bellissima, generazione.

Ogni anno per l’11novembre in Gran Bretagna si indossa un papavero rosso di carta e si versa un contributo all’associazione per i soldati invalidi. Non puoi uscire di casa senza il tuo poppy. E’ una vergogna. Si vendono per la strada, nei negozi, negli uffici, si fa il giro delle classi nelle scuole. Tra quei bambini ora ci sono i nuovi orfani di guerra, quelli dell’Iraq, l’ultima di una lunga e nobile stirpe di folli totali. Una guerra pazza.

Ogni anno per l’11 novembre si tiene una serata di commemorazione al Royal Albert Hall. E’ per lo più una serata di celebrazione della memoria di tutti quanti distrutti dalla guerra, se cerca di festeggiare il coraggio e l’onore di questi giovani. Ma poi non ci si riesce più, e ogni anno, c’è il momento dei papaveri.

Il Royal Albert Hall è grande. E’ un auditorium costruito sul modello palchi e platea, come la Scala. Ogni anno si tende attraverso l’intero soffitto una rete. Nella rete ci sta un papavero per ogni persona morta in guerra dalla Grande Guerra ad oggi. E ogni anno quella rete pesa di più. Ogni anno tutti sanno come sarà, e si sente l’apnea. Nel più totale silenzio, si apre la rete. E piove papaveri. Scendono, scendono, scendono, lenti come la neve, ballando nell’aria. Passano i secondi, passano i minuti, e quell’enorme spazio è ancora pieno di papaveri che scendono, scendono, scendono. Arriviamo a 3 minuti, a 4 quattro minuti, e nel più totale silenzio ognuno porta un macigno sul cuore e guarda vita dopo vita, speranza dopo speranza, scendere ballando verso la sua ineluttabile fine. Siamo a 5 minuti, e ancora scendono i papaveri. E il silenzio è pesante. Chi è lì stringe una mano. Chi è a casa cerca i suoi figli, se li stringe a se in silenzio e ringrazia Dio con ferocia che ci sono ancora.

E scendono e scendono, ma non li vedi più per le lacrime.

E scendono e scendono e non si può scordare l’orrore.


Saturday, November 10, 2007

Senza Titolo

Il cantico della nostra ultima chiacchierata: sulle note del tuo dolore, di abbagliante bellezza, la struggente, confusa, condivisione di un dolore per una perdita violenta e senza senso.

Darei la mia via per ridarle il suo figlio.

Le note della tua musica, di bellezza feroce, l'armonia della condivisione, il disaccordo del senso di colpo, ti sentivi fregato.

A cosa servono i miei anni, perché li devo avere io, davanti alla lacrime di una madre? Le darei la mia vita ora e subito per ridarle il suo figlio.

E poco dopo, si è spenta la tua musica.

Thursday, November 08, 2007

Ouch

Oggi ho guardato mio figlio attraverso una porta semichiusa mentre di spalle cercava di annodare la sua cintura per il judo.
La nuca è la parte più fragile, più vulnerabile, più indifesa di una persona.
L'ho amato così tanto che mi è venuta un dolore feroce al torace e ho pensato di morire di amore.

Saturday, November 03, 2007

A Voice from Death Row

Quando, pochi giorni fa, ho ricevuto una email da Amnesty International USA intitolata "Una Voce dal Corridoio della Morte", ho aspettato una giornata intera prima di aprirla. Non volevo fosse l'ennesimo appello fallito, esecuzione avvenuta.

E invece, vi faccio leggere ciò che ho trovato. Per chi non legge l'inglese, racconta che grazie ai firmatari dell'appello per fermare la sua esecuzione, Troy Davis è ancora vivo, ha ancora una possibilità di farcela. Anche se io credessi fosse colpevole, avrei firmato lo stesso l'appello, magari con tristezza, senza un particolare senso di soddisfazione, ma il fatto è che io non credo che Troy Davis sia colpevole di omicidio. I motivi sono elencati nella lettera sotto.

- mancanza di prove
- mancanza dell'arma del delitto
- le uniche prove erano testimonianze, 7 dei 9 testimoni o hanno ritirato la testimonianza oppure non sono credibili perché contradittori
- diversi testimoni hanno parlato di pesanti pressioni subite dalle forze dell'ordine
- il principale testimone contro Davis è anche l'altro sospetto principale, esistono 9 testimonianze che questo individuo ha sparato il colpo fatale

Vi prego, quando qualcuno cerca di sgridarvi perché i vostri orizzonti sono troppo in là, perché possiamo agire soltanto nelle vicinanza immediate, perché è una perdità di tempo alzare le aspettative dei propri poteri, ricordatevi della lettera che cito sotto. Lo so, lo so, che è un cliché terribile, ma l'oceano è fatto di gocce.

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Dear Jane
Because of you, Troy Davis is still alive today.

Last July, despite strong evidence of his innocence, Troy Davis came within 24 hours of execution by the state of Georgia. Thanks to the 34,000 individuals who sent appeals, Troy was granted a 90-day stay. The Georgia Supreme Court will decide if Troy gets a new trial and an opportunity to finally present evidence that has never been heard in court.

There was no physical evidence against Troy Davis.
The weapon used was never found.
The case against him consisted entirely of witness testimony.
7 of the 9 non-police witnesses have recanted or contradicted their testimony.
Many of these witnesses have stated that they were pressured or coerced by the police. One of the witnesses who has not recanted is the principle alternative suspect.
Nine individuals have signed affadavits implicating this suspect as the actual shooter.


Troy Davis has never had a hearing in federal court on the reliability of the witness testimony used against him. Troy's life was temporarily spared, yet the possibility of his execution still remains if he is not granted a new hearing or trial.

Together, we´ll send a strong message to the Georgia authorities that when it comes to the death penalty, fairness matters.
In solidarity,
Larry Cox
Executive Director

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Thursday, November 01, 2007

Libri e Lampionai


In un momento particolare, pieno di ricordi e del bramare, di Hallowe’en e autunno e colori e profumi atavici, ecco che senza rendermene conto mi sono presa dallo scaffale dei libri non letti (che gronda, gronda tutto il giorno e si lamenta e geme, e mi supplica di fargli digerire che questo peso sullo stomaco di tante parole non ancora lette e digerite lo fa morì), dicevo, mi sono presa dallo scaffale un libro che non mi ricordavo neanche di avere. Ma che da buon libro ha saputo proporsi nel momento suo: Il Lampionaio di Edimburgo di Anthony O’Neill.

Una lettura lenta, di altri tempi. Dei personaggi che prendono il loro tempo, insistono con il lettore che abbiano il tempo per spiegarsi, per finire il discorso. Il trama? Ma sì, che c’è tempo, ma prima dobbiamo spiegarti delle cose lettore frettoloso del 21° secolo troppo abituato ad avere tutto subito sul ADSL e poter godersi anni di storia tipo Guerra e Pace in una comoda versione film di 120 minuti. Noi siamo personaggio dei tempi delle carrozze, dei tre o quattro kilometri da percorrere a piedi, della cena cotta nel cammino se non c’è la stufa, dei lampioni e i lampionai.

Ma soprattutto è un libro di Edimburgo, città che amo come fosse una persona viva, in ogni suo umore, in ogni suo aspetto. Questo è un libro che percorre a piedi tutta la città, strade per via per vicolo, che riporta nelle viscere nere e umide dello spaventoso Cowgate (come i personaggi, non ci andavo neanch’io tanto tranquillamente, mi faceva paura), nello spazio e l’aria del parco di Hollyrood, nell’eleganza dell’ariosa e curvilinea New Town, ad ogni passo corro avanti ai personaggi e mi chiedo se gireranno a sinistra per scendere nel Grassmarket o a destra lungo Lothian Road, salgono su il North Bridge o scendono in Candlemaker Row?

La città come me la ricordo io da bambina, che poi è scomparsa. Una città nera, rivestita di secoli di fuliggine, una città che spaventa le bambine e suggerisce macabre storie gotiche dietro ad ogni porta, in fondo ad ogni vicolo. Ora una città che ha riacquistato il suo splendore dorato: l’età d’Oro, l’età dell’Illuminismo, quando smise di essere “Auld Reekie” (Vecchio Fumoso Puzzolente) e diventò “l’Atene del Nord”. La sua New Town in arenaria gialla, una città che splendeva, che luccicava, ma che con gli anni si uniformò con il nero e rimuginante Old Town. Ora ripulita, splendida, leggera, ariosa, dorata. Ma non nei tempi dei lampionai, di Jekyll e Hyde (tutti noi sappiamo che Stevenson stava pensando ad Edimburgo e non a Londra), dei Resurrectionists, di Burke e Hare, di Weir, dell’esecuzione di Sawney Bean e la sua famiglia-tribù. Quanto ho da raccontarvi!

Un’ottima idea visiva dell’Edimburgo del passato è nel film Mary Reilly con Julia Roberts e John Malkovich.